Ricordi d’inverno: le veglie e i racconti di masche

I Racconti d’inverno sono il seguito dell’articolo sui Racconti d’autunno, proposti nella seconda lezione nel mio corso “Bellezza tra Langhe, Monferrato e Roero” all’Università delle Tre Età di Asti.
Anche per questa parte ho utilizzato come fonte il libro della maestra Cecilia Boano, nata nel 1926, memoria storica di Govone che, prima di lasciarci, ha trasformato in un libro la sua vita, in questo post abbinandoli alle foto invernali di Giornarunner.
RACCONTI D’INVERNO
Estratto dal libro Govone il mio paese di Cecilia Boano, arabAFenice

Le veglie
Pagg. 136-137
L’inverno era bello per le veglie: alla sera si andava a ‘vegliare’, Chi aveva la fortuna di possedere una stalla ospitava i vicini che vi andavano per godere il buon tepore di quell’ambiente riscaldato dal fiato degli animali.
La luce era fioca: prima i lumini a petrolio, più tardi lampadine da pochi watt. In quella penombra si parlava del più e del meno, si raccontavano storie ai bambini, si parlava di masche, mentre i piccoli sgranavano gli occhi e si stringevano nelle spalle con dei brividi di paura, Le donne non smettevano di lavorare; anche quando con un piede facevano don dolare una culla, con le mani sferruzzavano
in continuazione: maglie, calzettoni, scapin (solette) di ricambio, poiché negli zoccoli era sempre il piede delle calze che si consumava per primo. Si rattoppavano indumenti e lenzuola, mentre le ragazze ricamavano la biancheria per il corredo. Gli uomini riparavano gli attrezzi da lavoro, intrecciavano ceste e cestini, preparavano i fasci di salici per legare le viti al tempo giusto, facevano corde.
La stalla era viva e vivace, anche se il luogo invitava alla calma, a parlare a bassa voce per non innervosire i vitelli e le mucche che sonnecchiavano ruminando con ritmo lento e pacato, scuotendo ogni tanto la testa, con inevitabile tintinnio di catene. Le serate passavano in fretta, anche perché non si protraevano, di solito, oltre le 22.
C’era anche chi dormiva nella stalla, sul pajuin (mucchio di paglia), con un lenzuolo e una coperta, così si godeva il tepore emanato dal fiato degli animali.

Giro di San Pietro - Govone

Le storie
Pagg. 137-139
Durante le veglie si raccontavano anche storie di masche. Ai miei tempi circolava quella della masca granda (alta). Si cominciava col dire che l’avevano tramandata per vera, perciò acquistava maggior interesse.
Una volta, tanto tempo fa, successe presso il cimitero un fatto assai strano; compariva nella strada una figura tutta bianca, molto alta; passeggiava avanti e indietro come se fosse stata di casa proprio lì. Chi la vedeva ne rimaneva terrorizzato e passare per quei paraggi diventava un problema, tanto più che quella granda fermava gli uomini che tornavano, verso sera da S. Damiano, nei giorni di mercato. Avevano sempre dei soldi in tasca, frutto di qualche vendita, e la granda se li faceva consegnare Fu il maresciallo che promise sorveglianza, si recò più volte presso il camposanto, ma non vide mai nulla. Rassicurava gli uomini incoraggiandoli a passare tranquilli che tutto era solo fantasia. Invece quella masca granda compariva ancora, e ì poveri contadini si vedevano svuotare le tasche dei loro piccoli guadagni.
Ma una sera un uomo coraggioso, deciso tutto pur di farla finita, passò a notte fonda da quel luogo misterioso col suo cavallo e il carro, tenendo a portata di mano la martinique (arnese che serviva per frenare le ruote in discesa).
Ed ecco pararglisi davanti, come una visione d’oltretomba la bianca figura della granda: “Altolà dammi il portafoglio, se ti preme la pelle” Ma invece del portafoglio, il contadino brandì la martinique e si avventò contro la masca urlando: “O la granda o la cita (piccola), adesso ti aggiusto io!”. La granda tentava di fuggire gridando, ma l’uomo l’afferrò per il lenzuolo che la ricopriva. E venne allo scoperto nientemeno che il maresciallo in persona! Da allora nessuno più vide la granda e nemmeno il maresciallo…

Giro di San Pietro - Govone

Il camposanto era il luogo privilegiato per questo tipo di storie. Desolato e solitario, infiorato solo nella ricorrenza dei Santi, quando si toglieva l’erba che ricopriva le tombe per cospargervi uno strato di sabbia; buio nella notte, senza le lucine che lo ravvivano adesso facendolo assomigliare un campo pieno di lucciole.
Ricordo un’altra storia che si raccontava quand’ero bambina. Una sera, durante una veglia in una stalla, si parlava di masche. Nel gruppo c’era una ragazza che si vantava di non aver paura di
niente; scommise che sarebbe stata capace di recarsi a quell’ora di notte nel cimitero e piantare per terra la rocca che stava adoperando per filare la lana. I giovani presenti accettarono la scommessa e la seguirono da lontano. Lei andò di corsa, ma quando il cancello cigolò nell’aprirsi incominciò a tremare. Tuttavia, avanzò fino al centro di quel luogo lugubre e buio e piantò in terra la rocca. Ma ahimé, nella fretta agganciò anche un lembo del suo lungo vestito. Mandò un urlo, credendo di essere trattenuta da un defunto li sepolto, e per lo spavento cadde a terra e morì.

Le masche e dintorni

In un’intervista ad Antonella Saracco, Gino Malvicino raccontava:
“Una sera del tempo di vendemmia, antu neucc, Vigina du Citu, che era andata a trovare sua sorella a Trinità, mi chiese di accompagnarla casa. Una parola dopo l’altra, siamo arrivati al giro da Conti,
poi dovevo tornare da solo… e non ero mai passato vicino al camposanto all’imbrunire. Sulla riva, proprio davanti alla chiesa del cimitero, nel buio, ho visto qualcosa di bianco, come un enorme mantello, soffiare rumorosamente sull’erba. Terrorizzato, non riuscivo a proseguire. Che fosse una masca? Allora, nelle veglie, le facevano sempre entrare nel discorso. A quel punto ho sentito qualcuno imprecare balbettando, mentre scendeva dalla strada di Craviano Era Centin, che aveva perso il bue. Gli era scappato quando stava per staccarlo dal carro carico d’uva e ora l’aveva ritrovato che mangiava quell’erba e soffiava…”
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